Cultura e Società

Il ricordo di Lucio Dalla e la sua “Piazza Grande”

Dalla-piazza.grandeNon ricordo di aver visto il Festival del 1972. Si trattava di un meccanismo consumistico che premiava la banalità delle orietteberti e stritolava i cantautori. Il rumore della pallottola che aveva bruciato le cervella di Luigi Tenco risuonava ancora forte nelle nostre menti. Gli arcobaleni di Nicola di Bari e le violette di Peppino Gagliardi che vinsero il Festival mi sfiorarono appena. Il pezzo di Dalla, che ottenne un modestissimo risultato, alimentò invece per lunghi anni la mia colonna sonora mentale. Sto naturalmente parlando di Piazza Grande, una canzone che aveva un testo che mi intrigava e una musica che – chissà perché? – mi evocava un brioso e, nello stesso tempo, malinconico Portogallo. Iniziavo allora la mia carriera di insegnante impegnato nel partito e nel sindacato ed ero convinto che il mondo dovesse essere modificato radicalmente modificato – con la lotta di classe. Il protagonista della canzone, che aveva cambiato la propria vita tramite la scelta individualissima della cloche, era decisamente fuori linea. Si sarebbe potuto dire di destra, ma non osai mai incollargli quell’etichetta: me lo impediva quel tanto di anarchico e di hippy che sicuramente aveva dovuto motivare la scelta di vita del clochard bolognese. Posseggo un ricordo vivissimo. Nel maggio di quell’anno mi trovavo dietro la finestra della sala insegnanti della mia scuola dolomitica e contemplavo le sfaccettature che il gioco di luci ed ombre metteva in evidenza sulla vasta parete rocciosa che sovrasta la città, mentre Lucio Dalla, da dentro un transistor, cantava quella canzone mettendomi allegria. Due colleghi, seduti a un tavolo alla mia destra, presero a discutere animatamente sulla migliore traduzione italiana della parola clochard: barbone, senza tetto, nomade, mendicante, eccetera. Era fatale che chiedessero a me – insegnante di francese – di fungere da corte di cassazione. Mi grattai la testa e cercai rifugio nell’etimologia della parola. Non sapevo che le campane non c’entravano nulla ed annaspavo. Mi tolse dall’imbarazzo una collega che, entrando, esclamò: «A Milano hanno ammazzato il commissario Calabresi!». E la grevità dei tempi fece irruzione nella sala con tutta la sua carica d’angoscia. Il protagonista della canzone di Dalla, come i gatti randagi, non ha padroni, ma è ben inserito nel contesto urbano: ha per amici gli innamorati che si danno appuntamento nei giardinetti, riceve affetto e lo ricambia con generosità, distribuisce sogni alla gente. Fa parte della variegata famiglia dei clochard di quegli anni che un po’ facevano venire in mente Diogene e che la comunità finiva per adottare. Scrutavano il mondo dal punto di osservazione del gatto. Dei passanti esaminavano le scarpe, le gambe e l’andatura; solo se era il caso, poi, sollevavano gli occhi per degnarli di uno sguardo. Si era portati ad idealizzarli. Apparivano come dei saggi, dei filosofi cinici sulla strada dell’ atarassia. La simpatia che ispiravano faceva passare sotto silenzio l’aspetto autodistruttivo che la loro scelta sottintedeva. Oggi quei clochard sembrano essere sulla via dell’ estinzione, sommersi dai punkabbestia e dai mille tipi di marginali che la società espelle quotidianamente dal proprio seno: licenziamenti, sfratti, impossibilità di pagare le bollette, eccetera eccetera. Non c’è posto per la filosofia quando rischi di essere ammazzato da chi vuole prenderti il posticino che ti sei conquistato per proteggerti dal gelo della notte oppure puoi essere cosparso di benzina e bruciato vivo da incoscienti che vogliono solo divertirsi o da nazistelli che si danno la missione di purificare la società. Di santi, in piazza Grande, non ce n’è davvero più.

ENZO BARNABÀ (dal volume “Lo Zibaldone del Festival”, Sanremo, 2010)

IL TESTO DELLA CANZONE
Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
sulle panchine in Piazza Grande,
ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n’è.
Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me,
gli innamorati in Piazza Grande,
dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no.
A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io.
A modo mio avrei bisogno di sognare anch’io.
Una famiglia vera e propria non ce l’ho
e la mia casa è Piazza Grande,
a chi mi crede prendo amore e amore do, quanto ne ho.
Con me di donne generose non ce n’è,
rubo l’amore in Piazza Grande,
e meno male che briganti come me qui non ce n’è.
A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io.
Avrei bisogno di pregare Dio.
Ma la mia vita non la cambierò mai mai,
a modo mio quel che sono l’ho voluto io
Lenzuola bianche per coprirci non ne ho
sotto le stelle in Piazza Grande,
e se la vita non ha sogni io li ho e te li do.
E se non ci sarà più gente come me
voglio morire in Piazza Grande,
tra i gatti che non han padrone come me attorno a me