Cultura e Società

Dove affondano le nostre radici. Il libro di Salvatore di Vita sulle miniere valguarneresi

copertinaSe si va a leggere la voce Valguarnera sull’ “Enciclopedia della Sicilia” dell’Editore Franco Maria Ricci si resta a bocca aperta quando si scopre che l’autore non vi fa cenno alla vicenda dello zolfo che per due secoli ha connotato la vita del paese. Al punto che se i contadini dei “Mimi” lanziani non assomigliano ai piccolo borghesi della tradizione letteraria siciliana è proprio perché – ipotizza Vincenzo Consolo – l’autore e i personaggi vengono fuori da un paese zolfifero.

La sciatteria della lussuosa enciclopedia si accompagna al fisiologico processo dell’oblio generazionale che rischia di far passare la spugna sulla storia impedendoci di cogliere la specificità culturale della nostra comunità. Opportuna appare, quindi, la pubblicazione di “Centodiciassette gradini nell’ombra”, il libro che Salvatore Di Vita ha dedicato alle miniere valguarneresi, componente tutt’altro che trascurabile dell’industria zolfifera isolana.

Servendosi di documenti d’archivio, di testimonianze di protagonisti e della ricca letteratura del settore, l’autore ha saputo, con scrupolosità, ricostruire quel mondo e raccontarlo con un linguaggio chiaro ed efficace. Siamo lontani mille miglia dalla “iattanza cialtrona” che Vittorini ritrovava nei manoscritti che gli pervenivano dall’isola; una constatazione che certamente, come al sottoscritto, risulterà gradita a molti altri lettori.

Il mondo che all’altro Lanza (Giuseppe, uno dei cui racconti viene molto opportunamente ripubblicato in appendice al volume) mostra giustamente un volto fatto di soli due colori, il grigio e il giallo, quando viene scandagliato emerge nella sua vasta complessità. Si va dalla fase connotata dai carusi che trasportano a spalla pesanti “stirratùri”, a quella dei vagoncini e del martello pneumatico , il “motopìcu”, come si diceva; dalle coltivazioni a “gallerie e pilastri” a quelle che comportano pozzi ed ascensori; dalle note e studiate miniere di Floristella e di Grottacalda a quelle – pur importanti ma che correvano il rischio di sparire definitivamente dalla memoria collettiva – della Gallizzi e delle varie Marcenò.

Il basso livello tecnologico e la “coltivazione a rapina” costellano questo mondo di fatica e di costanti ed orrendi sacrifici di vite umane. Il più terribile, con parecchie decine di morti, è quello della Volparella sul quale Di Vita indaga con passione senza però riuscire a venire del tutto a capo del mistero nel quale è avvolto l’incidente. Il fatalismo davanti alla morte ha svolto il suo ruolo, ma forse anche l’atteggiamento illustrato da Michelle Perrot: “I cadaveri proletari commuovono poco l’opinione pubblica ottocentesca: davanti alla morte, la sensibilità si ferma alla frontiera del sottosviluppo, è strettamente sociale”.

Il libro esplora due – rilevanti, per ragioni molto diverse – fatti di cronaca, quello – struggente – del suicidio di Giuseppe Sciascia che lascerà un trauma indelebile nel fratello Leonardo e quello della rapina effettuata nel 1952 alla Spirito Santo. Non mancano i riferimenti alla lotta sindacale del dopoguerra e all’ingerenza effettuata da alcuni politici che sanno sfruttare la cultura dei santi in paradiso, né allo scontro feroce che coinvolge i due grandi partiti di massa, la DC ed il PCI. Tutt’altro che brillante è poi il ritratto dell’imprenditoria locale che sembra muoversi in una sorta di far west fatto di carte bollate e popolato da incredibili personaggi come l’ineffabile Luigi Leonardi.

Molto appropriato mi è parso l’ultimo capitolo nel quale viene sinteticamente tracciata una storia generale dell’industria zolfifera isolana. Un capitolo da fare studiare a scuola per far sì che i giovani vengano a conoscenza delle sfaccettature più rilevanti di uno sviluppo storico che parte dagli appetiti privi di scrupoli dei trust inglesi e francesi (che coinvolgono anche il territorio di Valguarnera) per arrivare alla regionalizzazione e alla morte del settore.

Un libro da non perdere, dunque, se si vuole conoscere l’humus nel quale affondano le nostre radici.

Enzo Barnabà