Cultura e Società

“Il ventre del pitone”. Le riflessioni di una lettrice valguarnerese

Ho letto questo romanzo del mio concittadino Enzo Barnabà e l’ho trovato estremamente interessante per le problematiche legate all’immigrazione, nonché per comprendere i meccanismi che conducono i nostri simili ad abbandonare la loro terra d’origine per inseguire il sogno europeo.

La protagonista è Cunegonda, nome che etimologicamente vuol dire ” colei che difende la stirpe”. Attraverso lei e le sue vicende, noi attraversiamo la realtà africana in un percorso che, alla fine del libro, ci lascia l’impressione di esserci stati davvero.

Si tratta di un romanzo di estrema attualità, in un’epoca come la nostra di grandi trasformazioni culturali e di grandi migrazioni in cui il problema dell’integrazione è più che mai sentito e discusso. che ci riporta alle origini di questi spostamenti analizzandone con sagacia le cause anche e soprattutto psicologiche, dove l’uomo, rispetto alla donna, è visto piuttosto come un “compagno di viaggio” verso la realizzazione di sé come persona e come madre.

L’innata tendenza alla salvaguardia della stirpe ( e qui la scelta del nome della protagonista non poteva essere più azzeccata) spinge Cunegonda a cercare, per il bambino che porta in grembo, un mondo migliore, anche se , sia all’inizio che alla fine del libro, l’autore lascia al lettore la decisione di stabilire se questo mondo migliore sia veramente il nostro.

La lettura di questo libro ci pone davanti a tante riflessioni, non solo sulla realtà africana, che è bene conoscere se vogliamo vivere con serenità questo passaggio verso un mondo sempre più multietnico, ma su quella delle donne, di ogni tempo e luogo, sull’universo femminile che l’autore ha saputo abilmente esplorare e analizzare, concentrando l’attenzione su quella che è la caratteristica precipua della femminilità, cioè l’essere madre e come tale perpetuatrice della specie e protettrice di una natura che sempre più viene defraudata, profanata e stravolta dalla competitività umana.

Cunegonda, però, non è solo la protagonista della vicenda ma anche l’io narrante che, a trent’anni, decide di raccontare la sua storia, in un lungo flash-back.

Proprio la scelta stilistica dell’io narrante  contribuisce a creare  l’impressione che si tratti proprio di un racconto autobiografico e non si pensa più all’autore, il quale ha avuto la grande capacità di esplorare così intimamente l’universo femminile da farci dimenticare che egli in realtà è un uomo, tanto più che, appartenendo Cunegonda a una civiltà diversa, esso si presenta oscuro, misterioso e spesso difficile da interpretare.

Difficile solo in apparenza , perché in realtà l’universo femminile presenta aspetti comuni alle donne di ogni civiltà, essendo questi quelli più istintivi e intrinseci alla stessa natura che le vuole portatrici di vita e quindi più propense all’accoglimento, all’altruismo, all’empatia, alla sensibilità, alla pazienza, alla compassione, alla collaborazione.

Quel femminile che rappresenta inoltre l’energia della vita e infatti, come la madre accoglie suo figlio e lo ama per come è, così la donna accoglie la vita e vi si offre, in un’esperienza quasi di abbandono.

Ma l’illusione di una vita migliore, più libera dalle avversità naturali, oltre che la morte della madre che sancisce il definitivo distacco dal mondo originario , spinge la protagonista ad affrontare ogni sorta di peripezie sempre sorretta dalla speranza, quella speranza che noi occidentali, ormai sommersi da tutti gli oggetti che potevamo desiderare e apparentemente aperti ad ogni opportunità, forse non abbiamo più, non abbiamo più la molla che ci spinge ad affrontare la vita con il coraggio di cui Cunegonda ha dato prova in questo racconto, che vuol essere anche un documentario , la testimonianza di un mondo per noi tanto più difficile da comprendere quanto più la nostra vera natura è intrappolata in una serie di consuetudini ormai consolidate da secoli, come se fosse appunto racchiusa nel ventre di un pitone.

Sorretta dalla forza di questa speranza, ella affronta una vera e propria odissea che la porta, insieme a un occasionale compagno di viaggio, ad attraversare quasi tutta l’Africa nord-occidentale, come risulta dalla cartina geografica che insieme a un indispensabile e puntuale glossario Barnabà colloca alla fine del libro.

Il viaggio di Cunegonda ci catapulta in un mondo bizzarro e meraviglioso, affascinante e crudele che, a dispetto della colonizzazione prima e della globalizzazione poi, è riuscito miracolosamente a sopravvivere, ad autorganizzarsi, come dice giustamente nella sua acuta e approfondita prefazione Serge Latouche, il quale dichiara testualmente che “il mercato colonizza lo stato molto più di quanto lo stato non colonizzi il mercato” per cui anche in Africa tutto viene mercificato e monetizzato.

E proprio la prefazione di Latouche aggiunge un valore in più al libro, oltre al valore documentario con cui ci presenta alcune delle meno conosciute realtà africane, che ci induce a riflettere su aspetti ben più ampi dovuti alla globalizzazione e al modo in cui questa incide nei paesi del sud del mondo spopolandoli, anziché creare opportunità per un miglioramento delle loro condizioni di vita, nell’ambito del loro territorio e delle risorse che esso possiede, e che invece li induce ad adeguarsi alla maniera di vita occidentale che non è forse la più consona alla realtà naturale di quei luoghi.

Nemico del consumismo e della razionalità strumentale, Latouche è  uno dei critici più acuti della ideologia universalista dalle connotazioni utilitariste dominata dal mercato che non è altro che una creazione ideologica occidentale, di un occidente che, in nome della propria identità , pretende d’imporre un imperialismo culturale al resto del mondo.

La lettura di questo romanzo scorre fluida e leggera, anche nei momenti più crudi e nelle situazioni più scabrose, e spesso ci si imbatte in proverbi popolari africani abilmente incastonati nel testo o in descrizioni di paesaggi per noi inusuali che costituirebbero lo sfondo ideale per un film, come si può vedere da questi brevi passi che riporto esemplificativamente:

Scoprivo così che gli anziani sono i depositari delle conoscenze e che quello che loro riescono a vedere seduti, un giovane non lo vede neanche se si arrampica su un albero. Più tardi, sentii una frase che mi affascinò perché mi parve che la sua bellezza desse ulteriore forza alla verità che conteneva: «Quando muore un vecchio è come se bruciasse un’intera biblioteca».

Tre giorni dopo consegnavo a Ben i miei certificati di nascita e di nazionalità, necessari al rilascio del passaporto. Aspettando di entrare in possesso del documento, un proverbio venne a martellarmi ripetutamente la mente: «Per quanto tu corra, non riuscirai mai a sorpassare il tuo naso». Sperai con tutte le mie forze che questa volta la saggezza africana non dicesse il vero. Di frequente volgevo infatti lo sguardo dietro le spalle e avevo l’impressione che la mia esistenza, benché gremita di mille avvenimenti, fosse stata brevissima.

Qua e là, dei cespugli spinosi catturavano i sacchetti di plastica di cui era cosparso il suolo, tramutandoli in sarcastici simulacri di frutti. La calura era soffocante e il paesaggio abbagliante, senza chiaroscuri, cangiante secondo i capricci della sabbia e del vento. Era sorprendente non trovare più quell’umido velo sospeso nell’aria, quella sostanza immateriale che, dalle nostre parti, filtra e attutisce le immagini degli uomini e delle cose, invitandoci a rallentare i ritmi della vita.

Paola Di Vita